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Leopold (Leo) ANZENGRUBER QUOTAZIONI

Ceramista di origine austriaca, nato a Steyr nel 1912, Leopold Anzengruber, dopo aver lavorato negli anni Venti presso la "Manifattura di Signa" collabora con la ditta per la produzione di ceramiche artistiche "Zaccagnini" di Firenze, a partire dalla prima metà degli anni Trenta.
Alcune delle sue ceramiche realizzate per la manifattura "Zaccagnini" sono siglate "Leo".
E' probabile anche una collaborazione succesiva con la fiorentina "Carraresi & Lucchesi", mentre è certo che abbia ideato alcune ceramiche per la "S.A.C.A." di Sesto Fiorentino.
Dopo alcuni anni di attività a Vietri, presso la "I.C.S." nel 1932 e alla fabbrica "Avallone" nel 1933-'34 e forse anche presso altre manifatture ceramiche del napoletano, alla fine degli anni Quaranta torna a Vienna dove, dopo una collaborazione con il laboratorio ceramico "Mundt Amann" fonda una sua manifattura.
Muore nel 1979

 

www.gonews.it/2017/10/20/pisa-la-ceramica-la-conferenza-levi

http://vietriierieoggi.jimdo.com/biografie-grandi-maestri/leopold-anzengruber

L’arrivo di Anzengruber alla I.C.S. di Vietri raccontato da lui stesso:
Leo racconta in un suo scritto, datato Vienna, 11 gennaio 1970, pubblicato, per la prima volta, nel libro della Matschiner il suo arrivo a Vietri.
Dopo la chiamata di Simondetti, parte subito: prende un treno da Firenze a Napoli, sale sulla ferrovia Napoli Salerno ed arriva a Vietri sul mare all’alba, con il levar del sole.
Prende la discesa verso il mare, subito incantato dal mare, dai profumi, dalla vegetazione, dalle case bianche senza tetti ma con le volte a botte, dai colori, dalle donne vestite di nero con le ceste con i pesci sulle teste che gli vengono incontro.
Gli sembra di sognare, si preoccupa perfino di avere svegliato qualche abitante passando.
Arrivato alla marina, osserva i pescatori che stanno riparando le reti e le barche.
Resta in attesa di vedere se arriva qualcuno della fabbrica di ceramiche, che è situata lì vicino nelle rovine di una torre fortificata, direttamente sul mare.
La parte finale dello scritto, nella traduzione in italiano della nipote Margherita Gigliotti, è riportata a seguire:

“Finalmente arrivarono molti uomini e ragazzini, alcune donne, tutti vestiti poveramente.
Schiamazzando e gesticolando si fermarono davanti a un portone mezzo distrutto.
Era il portone della fabbrica. Un uomo dallo sguardo penetrante e severo si avvicinò con un mazzo di chiavi in mano.
Gli operai si fecero a lato, in silenzio, forse perché erano tutti scalzi mentre l’uomo con le chiavi portava pesanti scarponi.
Li fece entrare a uno a uno in un piccolo cortile, dopodiché li contò.
Feci per presentarmi, ma mi disse di aspettare.
Il mio luogo di lavoro me lo ero figurato in tutt’altro modo, soprattutto l’accoglienza.
Ma ecco che arrivarono altri operai. Si misero intorno a me a osservarmi, ridevano senza alcun imbarazzo, forse per via della valigia e del cappello che tenevo in mano, o per via delle mie lentiggini, non capivo.
C’era con loro una ragazza, una tedesca. Sapeva del mio arrivo e dopo che ebbi detto il mio nome spinse a uno a uno gli altri verso di me affinché si presentassero.
La ragazza, che a dire il vero per i miei parametri di allora era una donna, poteva avere al massimo trent’anni.
Si chiamava Lisel Oppel.
Mi spiegò che l’uomo delle chiavi era il “direttore”, Don Salvatore, ovvero Salvatore Procida. “Crede di essere un grande artista”, mi bisbigliò all’orecchio.
Il signor Max il padrone sarebbe arrivato più tardi, dovevo attenderlo nel suo ufficio.
Ricordo perfettamente quell’ufficio. Vi passai delle ore, studiando fin nei minimi dettagli tutto ciò che mi si offriva alla vista.
Per tutto il tempo stetti educatamente seduto su una cassa.
Un moscone mi faceva compagnia. Andava continuamente a sbattere contro il vetro rotto della finestra e voleva uscire. Anch’io volevo uscire.
La scrivania era una cassa rovesciata e alle pareti erano fissate con giganteschi chiodi delle assi di legno a mo’ di scaffali, con sopra vecchi raccoglitori e alte pile di carte.
Non si vedeva il cestino, probabilmente non ve ne era bisogno.
In un angolo c’era una vecchia cassaforte che conferiva al tutto un’aria nobile e misteriosa.
Sulla parete di fronte era appeso un quadro con una cornice dorata.
Raffigurava una fabbrica con i suoi tetti a shed, le ciminiere, gli edifici di servizio e l’allacciamento ferroviario.
Sotto vi campeggiava una scritta riccamente decorata “Industria ceramica artistica di Vietri sul mare” contornata da molte medaglie d’oro e il nome Max Melamerson.
Sì, così mi ero immaginato la fabbrica di ceramiche in cui avrei lavorato. Probabilmente anche il titolare, prima che arrivasse qui anni fa.
Stavo appunto cercando di immaginarmi questo industriale quando arrivò un ometto piccolo e dai modi frettolosi che si sedette dietro alla cassa, pardon dietro alla scrivania e senza guardarmi, come se mi trovassi a grande distanza gridò: “Bene che sia arrivato…..
"Emilio, Emilio!" Questo Emilio doveva essersi trovato pronto dietro la porta, poiché quando l’ometto gridò “Emilio!” la seconda volta era già lì.
Era basso, vestito di nero e piegato in un inchino. Anche in seguito non ho mai visto il tal Emilio in posizione eretta.
Con la stessa sonorità di voce venne incaricato di accompagnarmi nel reparto decorazione.
Il direttore lì mi avrebbe assegnato il lavoro da fare."

L’ingresso della fabbrica, come descritto da Leo, non sembra corrispondere a quello della I.C.S., ma piuttosto a quello di Avallone.

"Ci incamminammo lungo corridoi stretti e dal soffitto basso, su terra battuta, i muri di pietra erano senza intonaco e malridotti, finché arrivammo in un locale che avrei poi scoperto come il locale di lavoro più bello, anzi il più romantico che io avessi mai visto.
Ampiamente illuminato dalle finestre ad arco su un lato, il locale aveva il soffitto con una volta a botte che da noi hanno solo certe cantine molto profonde e che lo rendeva fresco e spazioso.
Le inferriate erano sufficientemente larghe per lasciarci passare attraverso, magri com’eravamo e tuffarci direttamente in mare nei giorni più caldi.
Davanti a ogni finestra c’era un tavolo con le ciotole con gli smalti. Intorno alcune sedie impagliate.
Il pavimento non si vedeva perché era letteralmente coperto da curiose ceramiche raffiguranti animali cotti col primo fuoco e dipinti di bianco, scodelle, scodelline, vasi e pile altissime di piatti messi l’uno sull’altro.
Tutto ciò andava dipinto e decorato. Un Eldorado!
Dovetti in un primo momento abituarmi ai contrasti di luce.
Fuori il sole accecante che si rifletteva nel mare, all’interno l’oscurità dei muri sopra di noi.
Don Salvatore, così voleva essere chiamato il direttore, mi accompagnò al tavolo al quale lavorava Lisel Oppel e la incaricò di istruirmi.
Poi mi consegnò un pacco di fogli, erano i progetti che gli avevo mandato e mi abbandonò al mio destino.
In cuor mio mi feci la croce e come prima cosa confessai a Lisel Oppel che non avevo la minima idea di come si potesse dipingere su quella superficie ruvida e polverosa. E poi gli ossidi di metallo! Non erano colori che avessero lo stesso aspetto di quando uscivano dal fuoco. Il nero era uno splendido verde. Il grigio un blu oltremare e così via.
Prima decorai alcuni vasi con animaletti e fiorellini. Ero così impegnato e concentrato che non mi accorsi che l’intera squadra di operai decoratori si era messa intorno a me a guardare, finché non se ne scapparono d’un tratto come galline spaventate, tornando tutti ai loro posti.
Era entrata una donna alquanto carina, bionda.
Stava dietro di me, me ne accorsi quando si appoggiò con le sue morbide cosce alla mia schiena. Sentii un’ondata di calore.
Prima ancora che potessi alzarmi udii dall’ingresso la voce del padrone: “Flo, Flo, è quello di Firenze mandato dal signor Simondetti!”
Ella mi guardò con i suoi grandi occhi azzurri e premendomi dolcemente sulle spalle mi fece di nuovo sedere al mio posto.
Anche stavolta non riuscivo a dire una parola, eppure avevo la ferma intenzione di comportarmi bene.
A quell’epoca la mia goffaggine mi dava sovente filo da torcere.
La signorina Oppel mi aveva già raccontato qualcosa della “signora”. Diceva che il vero capo era lei e che si occupava degli affari.
In quale modo se ne occupasse lo venni a sapere in seguito.
Dopo una amichevole raccomandazione circa il fatto che noi, i tedeschi, qui eravamo i padroni e che non dovevamo fraternizzare troppo con i nativi, come li chiamava sempre, cioè mantenere le distanze e così via, se ne andò.
Intanto io non avevo parlato ancora con nessuno se non con la signorina Oppel.
Verso mezzogiorno si udì il suono di un trombone. Era la sirena della fabbrica.
La signora Flora mi portò di persona uno spuntino e mi spiegò con un sorriso malizioso: “Lei abiterà da me e mangeremo anche insieme".
Dello stipendio non si era ancora parlato e le cose restarono così per molto tempo.
Il pomeriggio passò velocemente.
Ridemmo molto, la mia istruttrice e io.
Conobbi tutti i miei colleghi del reparto decorazione. Peppino, Franceschiello, Giovannino quello che tracciava il disegno e il fratello piccolo, “il cretino”, che in realtà aveva un suo nome ma il fratello lo chiamava sempre così o nel migliore dei casi “ciuccio”.
Nella parte in fondo al locale stavano a un tavolo alcuni uomini anziani.
Tutta la vita avevano lavorato come marinai su dei velieri che andavano lungo le coste fino in Sicilia per portarvi ciotole e brocche e al ritorno meloni e mandarini da vendere in Italia settentrionale. Quando fuori passavano i velieri, prendevano un po’ di tabacco da fiuto e si concedevano una pausa.
Così non si capiva mai davvero perché gli venissero gli occhi lucidi.
Ci volle del tempo perché mi abituassi al dialetto napoletano, che è un misto di italiano e spagnolo.
Così non capii che cosa dall’ingresso avesse urlato Emilio, il segretario e servitore personale del padrone, con la sua vocina in falsetto, a Peppino.
Che a dire il vero avrebbe dovuto chiamarsi “Peppone”, dal momento che superava tutti gli altri in altezza di più di una spanna.
In ogni caso doveva trattarsi di un insulto, perché qualcosa venne lanciato attraverso il locale e andò a infrangersi sul muro poco al di sopra della testa di Emilio.
Un breve alterco, molti tra i restanti operai che dicevano la loro e poi il silenzio. Peppino, che si era messo al centro della sala, si calò i pantaloni e lentamente, teatralmente, sollevò la camicia. A gran voce si vantava della dimensione e possanza dei suoi attributi sessuali e con gesto conclusivo da torero lasciò cadere il sipario.
Emilio non si era fatto più sentire, era sparito.
Si udì lo schiocco che fece la bocca di Lisel al momento di richiuderla. Era arrossita fino alla radice dei suoi biondi capelli.
Farfugliò un paio di volte a mezza voce: "e questo è Peppino il buono”.
Nel frattempo era calato il crepuscolo, i vecchi si alzarono e noi li seguimmo.
Fu la mia prima giornata di lavoro come ceramista".

Testimonianze raccolte dal prof. Giorgio Levi